Un invitato inatteso all’ultima cena

Nella storia dell’arte, tra le infinite ricorrenze simboliche e storiche del cibo e dei suoi riti, il soggetto più famoso e universalmente riconosciuto è senz’altro quello dell’Ultima Cena. Eppure, al di là del capolavoro di Leonardo nel Refettorio milanese di Santa Maria delle Grazie, la commistione rituale tra cibo e fede conta innumerevoli esempi e qualche curiosità.

Le parole con le quali il Cristo benedice il pane ed il vino sono l’origine del rito eucaristico, elemento centrale già nell’arte paleocristiana e nei mosaici bizantini del VI secolo. Il motivo, alternato a quello del tradimento, attraversa i secoli e le culture. Non esiste però il solo canone principale, come ogni elemento della tradizione, il tema iconografico subisce infinite interpretazioni e letture a seconda del contesto, fino agli esiti più inaspettati.

Cosa compare sulle tavole imbandite dell’Ultima Cena? Pane, vino, pesce, agnello, tutti simboli immediatamente collegati alla Pasqua ebraica e alla tradizione cristiana. Ma non solo. Si incontrano spesso anche cibi poveri, popolari, parte della fertile tradizione figurativa dell’arte che decora pievi e cappelle disseminate a colonizzare ed esprimere riti e credenze delle genti contadine. Uno di questi alimenti, in particolare, colpisce l’immaginario moderno per la sua apparente estraneità. Lo ritroviamo, in un periodo di intensa elaborazione simbolica come quello compreso tra il XIV e il XVI secolo, lungo un’area estesa del nostro paese che dalle alpi orientali raggiunge le rive dell’Adriatico.

Un affresco nella chiesa dei Santi Vittorio e Corona, a Feltre, ci offre ad esempio, sulla porzione di tovaglia proprio di fronte al Cristo, quattro animali rosso fuoco che rivolgono, quasi minacciandolo, le chele verso di lui. Il corpo, affusolato, ha ai lati quattro zampe e il capo è ornato da lunghe antenne. Non fosse per il colore, si potrebbe pensare allo scorpione, simbolo del tradimento, spesso raffigurato sui vessilli innalzati dai giudei in tante tele dell’epoca. Incontriamo lo stesso soggetto in diverse pievi delle province di Novara, Treviso e Belluno, e nella chiesa di Santa Maria in Solario a Brescia, in tutto si contano almeno cantocinquanta rappresentazioni. Si tratta del gambero di fiume (astacus fluvialis), crostaceo ormai scomparso dai corsi d’acqua del Nord Italia, da poco reintrodotto in un Comune della provincia di Torino, un tempo abbondante e importante integratore nelle diete delle genti di pianura e di bassa montagna. Di colore grigio, abitante dei fondi e delle gore fangose, con la cottura diviene d’un rosso intenso e perciò fu eletto a simbolo del sacrificio, della passione e della Resurrezione del Salvatore. Il carapace dei crostacei, inoltre, si rinnova ad ogni cambio di stagione.

A partire dal XII secolo queste caratteristiche ne fecero un emblema del passaggio dalla morte alla rinascita, dalla miseria della vita terrena allo splendore trascendente.

Anche altre particolarità del gambero colpirono la rigogliosa fantasia medievale. Innanzitutto il suo procedere all’indietro, indice di chi recede dalla retta via per abbracciare le teorie propugnate da alcune sette eretiche in merito alla reale presenza del corpo e del sangue di Gesù nel pane e nel vino eucaristici. Alcuni vollero attribuire la sua presenza sulla mensa degli apostoli al desiderio di ribadire la distanza del popolo ebraico, che non riconosce la venuta del Messia: i crostacei sono, per le regole alimentari kasher, cibo impuro, come indicato nel Levitico e nel Deuteronomio, simbolo dell’Antico patto. Ultima attribuzione possibile, nel vasto catalogo della significanza simbolica, ancora la somiglianza del gambero allo scorpione – e tale sembra a volte trasformarsi proprio in prossimità della figura di Giuda Iscariota. Oltre a diffamare gli ebrei, il crostaceo ricorda il segno zodiacale del cancro che presiede al cielo estivo, momento in cui il sole si ferma e inverte il suo corso, dalla luce al buio, dalla vita alla morte. Come il Cristo all’apice della sua parabola terrena.

di Roberto Carretta e Renato Viola.

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