Per una piccola storia dell’alimentazione – 5 puntata

triclinium-cena romani
Al tramonto le terme chiudevano e i Romani andavano a cena. Era il pasto che si prendeva in comune (donde cena dal greco koiné) nonché il pasto principale. Nel resto della giornata, infatti, solo alcuni consumavano la colazione al mattino e il pranzo a mezzogiorno; la maggior parte si limitava a uno spuntino, nel corso della mattinata, di pane e formaggio o di pane e carne fredda con qualche frutto.

La cena nelle case dei benestanti si svolgeva nella stanza da pranzo (triclinium), che era dotata di tre letti a tre posti, collocati intorno a una tavola. I commensali si sdraiavano sui letti (non i ragazzi, e talora le donne, che sedevano su semplici sgabelli), dopo essersi tolte le calzature e lavati i piedi e le mani con l’aiuto dello schiavetto. Intanto altri schiavi portavano anfore e coppe per l’acqua e il vino (quest’ultimo però era vietato alle donne, in teoria). Non erano ancora in uso le forchette, e il coltello non compariva sulla tavola, dove le carni venivano servite già tagliate a pezzi. Perciò i commensali portavano il cibo alla bocca con le mani o con un cucchiaio e si pulivano nei tovaglioli o con l’acqua versata in bacili. Non si usavano piatti se non quelli di vetro, di coccio o di metalli preziosi, su cui erano portate in tavola le vivande.

Ogni commensale spiegava davanti a sé un tovagliolo per non sporcare le belle coperte del letto ed, eventualmente, se era un invitato, per avvolgere in esso gli avanzi del cibo e portarseli a casa propria.

Secondo lo storico Tito Livio fu il contatto con l’Oriente e le sue eccessive raffinatezze a portare in Roma quella peregrina luxuria che doveva celebrare nel banchetto (convivium) la sua apoteosi. Qui non vi erano ammesse le matrone, ma soltanto le danzatrici e le musiciste in abiti succinti che dovevano intrattenere i convitati.

Il banchetto poteva iniziare alle tre del pomeriggio (con Nerone addirittura a mezzogiorno) e prolungarsi fino a notte in un susseguirsi di antipasti, di grandi arrosti, di selvaggina. Dopodichè la tavola veniva cambiata per le secundae mensae ovvero l’ampia schiera dei dessert.

Il dominus non doveva risparmiare le portate e le suppellettili preziose d’oro, d’argento, di alabastro. I pavimenti del triclinio erano coperti di tappeti orientali o, in alternativa, di grandi mosaici che raffiguravano in trompe l’oeil il pavimento cosparso di lische di pesce, di gusci di noci, di datteri, di fichi, di ricci di mare e di ogni altro genere di avanzi, cioè nelle condizioni in cui si sarebbe davvero trovato al termine delle abbondanti libagioni.

Senza raggiungere gli eccessi molto pacchiani della cena di Trimalcione, in cui venivano offerti interi maiali e vitelli ripieni di ogni ben di dio pur di meravigliare gli ospiti, come narra Petronio, una ricca cena consisteva comunque di numerose portate: antipasti (olive, uova sode, ghiri cosparsi di miele e papavero, mammelle di scrofa in salsa di tonno, salsicce con prugne, funghi, di cui i Romani erano particolarmente ghiotti); tre primi piatti (polli, fagiani, lepri, pesci in salse varie, ostriche, crostacei); due piatti di arrosto (di cinghiale o di maiale e di vitello), dessert (torte di farina e miele, formaggi, frutta o mosto cotto). Il tutto inaffiato di vino mescolato a miele e di vino mescolato ad acqua.

I grandi banchetti erano inoltre allietati da buffoni oppure inframmezzati dalla distribuzione di profumi o da letture, in cui si esibivano poeti noti o che aspiravano a diventare tali, avvocati che pronunciavano le loro più riuscite orazioni, letterati che portavano al giudizio dei presenti ricerche storiche, commedie, tragedie, secondo un’usanza che si manterrà nei salotti eleganti fino al Settecento e oltre.

Il lusso dei banchetti e la ricercatezza delle pietanze decretò la trasformazione del cuoco, come lamenta Tito Livio, da “servo spregevolissimo” in “uomo di gran pregio”, celebrato e conteso. Erano i cuochi stessi ad approvvigionare le loro cucine delle vivande necessarie. Le derrate alimentari arrivavano nell’Urbe di notte, su rumorosi carri e, al mattino, i prodotti venivano messi in vendita al mercato, nel foro e nelle botteghe. Il grande mercato coperto destinato alla vendita dei generi alimentari si chiamava macellum. Un cuoco celeberrimo fu Apicio, che visse nel I secolo d.C. e lasciò un libro di cucina, De re coquinaria, con le ricette di cui andavano ghiotti i ricchi di allora: selvaggina, sovente esotica, pappagalli, fenicotteri, pesci pregiati, salse, a cui si accompagnavano i vini trattati con miele e spezie.

Ma la cena usuale era, ovviamente, meno abbondante. Poteva essere composta da una lattuga, tre lumache e due uova per persona, olive, zucche e cipolle e un pasticcio di farro e di carne o un po’ di capretto arrosto o del pollo. Le cene dei più poveri poi si limitavano a pane, rape, fave, ceci o altri legumi e ortaggi conditi con sale, olio e aceto, uova e vino. A proposito del pane c’è da dire che il suo uso si diffuse lentamente tra i Romani. Era giudicato una moda greca, una cosa un po’ da snob. I Romani tradizionalisti preferivano il puls, una polentina molle che si preparava versando la farina nell’acqua bollente salata e si condiva con qualche spicchio d’aglio. Era da sempre il tipico cibo dei soldati, che ne mangiavano grandi scodelle al mattino presto, a mezzogiorno e a sera.

Tra le verdure erano ancora sconosciuti i fagiolini, i pomodori, le patate. Per dolcificare i cibi e le bevande si usava il miele, perchè non si conosceva lo zucchero. Sconosciuti erano anche il tè e il caffè.

Nei piccoli appartamenti dei poveri, stipati nelle altissime insulae, non c’erano locali per farvi cucina: le stanze erano pochissime e anguste, senz’aria, senza luce e l’acqua bisognava andarla a prendere alla fontana. Si faceva da mangiare su fornelletti portatili, in strada, oppure si compravano cibi già cotti in un thermopolium (così detto perchè serviva anche bevande calde). I thermopolia e le popinae erano rispettivamente i bar e le tavole calde del tempo. Constavano di un banco di mescita verso strada, in cui erano incassati gli orci del vino. Chi aveva fretta poteva essere servito senza entrare nel locale e, in piedi, bere un bicchiere di vino fresco o caldo, mangiare una salsiccia, una focaccia o un dolce. All’interno c’erano dei fornelli, orci per il vino e l’olio e per i cereali, panche di legno e qualche tavolo, credenze con i cibi in vendita. “Oggi”, recita l’iscrizione di una popina di Ercolano “per cena abbiamo pollo, pesce, prosciutto, pavone”. Gli esercenti dei bar e delle tavole calde mandavano in giro per le strade o nelle terme i garzoni a vendere focacce di ceci, salsicce e frattaglie, lupini e altri frutti: c’erano già dunque “i cibi da strada”.

Il condimento più comune e amato era la salsa di garum, che si preparava così: si buttavano in un recipiente pesci tagliati in pezzi quali sgombri e sardine, con le loro interiora e molte erbe aromatiche. Li si riduceva in una poltiglia che veniva messa sotto sale ed esposta al sole per parecchi giorni in modo che fermentasse; infine la si filtrava: il liquido che risultava era il garum dal sapore fortissimo e dall’odore pestilenziale. Per ottenere una salsa dal sapore un po’ simile, sembra, a quello del garum si può provare a stemperare due cucchiai di pasta d’acciughe in un litro di succo d’uva, ristretto sul fuoco e mescolato con origano e aglio. Buon appetito.

Di Elisabetta Chicco Vitzizzai

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